I rifugi della mente - II
John Steiner
Nell’articolo apparso su questo sito il 25-07-2021 ("John Steiner e rifugi della mente") ho fatto una presentazione generale del concetto dei rifugi della mente di John Steiner e di come l’autore suggerisca di affrontarli formulando la cosiddetta “interpretazione centrata sull’analista” di cui mostra l’enorme potenziale tecnico ma anche alcuni limiti.
In questo articolo desidero presentare alcune condizioni particolari con degli esempi clinici.
Le situazioni particolari sono il lutto, la psicosi e il rancore.
- Il lutto
La stabilità e la rigidità dei rifugi della mente derivano dal fatto che l’identificazione proiettiva è usata in modo da renderla irreversibile. Parti del Sé vengono scisse e proiettate in oggetti nei quali continueranno a risiedere con il risultato di indebolire cronicamente il soggetto.
“Gli oggetti che contengono questi elementi del Sé sono dotati di una particolare concretezza (Segal, 1957) e sono i mattoni di cui è costruito il rifugio della mente. Sono saldati insieme in un raggruppamento narcisistico e vanno a formare un’organizzazione patologica della personalità.” (p79).
L’Io risulta indebolito dalla perdita e resta dipendente dall’organizzazione. Nel soggetto normale l’identificazione proiettiva è reversibile, poiché grazie ad una adeguata elaborazione, le parti proiettate vengono recuperate. Infatti, con l’elaborazione del lutto, l’identificazione proiettiva viene rovesciata con conseguente arricchimento e integrazione dell’Io. Ma quando l’elaborazione del lutto resta incompleta, l’identificazione proiettiva perdurerà con effetti irreversibili: le parti proiettate resteranno nell’oggetto su cui sono state proiettate.
Steiner cita il caso di una paziente particolarmente lamentosa e rancorosa che creava un clima di vuoto e disperazione al punto da far dubitare Steiner della sua intelligenza. Tuttavia, nel corso dell’analisi un periodo di brillanti risultati accademici del passato testimoniavano la presenza di una viva intelligenza che, a ben guardare, veniva puntualmente utilizzata solo per confutare le interpretazioni di Steiner o per dimostrare che era in errore. Prevalentemente la paziente delegava totalmente la funzione di riflettere a Steiner. Aumentava la sua dipendenza verso di lui, come se pensare autonomamente fosse in qualche modo pericoloso, arrivando anche a inibire il fluire spontaneo delle associazioni. Questo creava una dipendenza con un analista onnisciente idealizzato a cui la paziente non avrebbe voluto rinunciare per non compiere il lutto di un oggetto perfetto e per questo si privava di una funzione che l’avrebbe resa autonoma, restando prigioniera degli effetti della proiezione di una funzione, col risultato del mantenimento di una menomazione. “Pensare in modo autonomo, avere desideri e assumersi responsabilità in prima persona, tutto questo le era vietato, e la capacità di compiere tali attività veniva proiettata. Per rientrarne in possesso avrebbe dovuto avere il coraggio di ribellarsi contro l’organizzazione” (pag. 83).
Come affermato da Bion, l’analista deve essere in grado di accogliere, offrire contenimento comprendere e infine dare significato alle proiezioni del paziente, e questo comporta una diminuzione dell’angoscia. Vi è una prima fase nella quale il paziente introietta un oggetto in grado di contenere parti del sé, il che implica una separazione incompleta con una riduzione dell’angoscia ma anche una relazione narcisistica da eterno paziente con la paura della perdita dell’oggetto. A questa segue una seconda fase caratterizzata dalla rinuncia all’oggetto con un conseguente progresso verso l’indipendenza e il ritiro delle proiezioni, e quindi l’esperienza della perdita.
Come formulato da Freud (1915), la perdita di una persona cara comporta un’identificazione con quell’oggetto e quindi il diniego della perdita che però l’esame di realtà impone come una dolorosa esperienza da affrontare con l’elaborazione del lutto. La complessità di questa operazione consiste nel ritirare l’investimento libidico sull’oggetto.
A partire dall’attuale riconoscimento del ruolo fondamentale dell’identificazione proiettiva nel creare relazioni oggettuali patologiche, possiamo considerare l’elaborazione del lutto più come un distacco di parti di sé dall’oggetto che non distacco della libido.
Quindi l’elaborazione del lutto implica diventare progressivamente consapevoli di una separazione tra il sé e l’oggetto comprendendo meglio cosa appartiene a sé, e cosa all’oggetto.
Inoltre, il soggetto deve rendersi conto che il suo amore e desiderio di riparazione sono insufficienti a preservare l’oggetto che deve essere lasciato morire, con conseguente disperazione e senso di colpa.
La difficoltà di superare la condizione di “eterno paziente” dipende dalla difficoltà a ritirare le proiezioni ed elaborare il lutto.
Un esempio è quello di un mio paziente, per quanto adulto e di fatto autonomo, che era intrappolato nella condizione di una cronica indecisione che lo rendeva dipendente dai genitori percepiti però come totalmente inaffidabili, bizzarri, fuori dal mondo. Pur non ritenendoli affidabili, si aspettava da loro un riconoscimento e una validazione che arrivava parzialmente e che comunque non riconosceva come sufficiente per quanto svalutava i genitori. Non poteva elaborare il lutto di genitori affidabili che non aveva mai avuto accettando la realtà della sua condizione e al tempo stesso era terrorizzato all’idea di perdere i genitori da cui restava dipendente per la percezione di una relazione incompleta che lo lasciava in sospeso. In questo caso il rifugio consisteva in una ansiosa zona di sospensione a un passo da una piena autonomia.
- Il ritiro nel mondo delirante: le organizzazioni psicotiche della personalità.
Nelle organizzazioni psicotiche il paziente è minacciato da una fortissima angoscia catastrofica di frammentazione per cui il delirio è un modo apportare un ordine apparente, un senso che procura un certo sollievo anche se sganciato dal rapporto con la realtà. Lo scompenso psicotico può essere attivato da fattori esterni o interni col risultato di un conflitto tra il sé e il mondo esterno.
Freud (1910b; 1923) considerava le psicosi come conseguenza di una catastrofe interna il cui esito è una frattura fra l’io e la realtà. Secondo Bion (1957; 1962a): lo psicotico cerca di liberarsi da una realtà odiata e temuta attaccando quella parte della psiche che percepisce la realtà. Questo attacco produce una frammentazione dell’io e dei suoi oggetti. Particelle degli oggetti, contenenti elementi dell’Io proiettati, formano gli “oggetti bizzarri” con una conseguente elevatissima angoscia persecutoria, come un “terrore senza nome”.
Queste condizioni di angoscia sono così intense e insopportabili che la psicosi con il delirio diventano un modo, per quanto sganciato dalla realtà, per reintrodurre un significato e fornire un certo sollievo. Ne deriva un rifugio folle ma preferibile all’angoscia catastrofica quando il rifugio venga messo in discussione con il tentativo di uscirne. L’investimento nel mondo delirante può risultare anche tenace anche per la piacevolezza dell’intensità dell’esperienza (o a volte anche della condizione di eccitazione che fornisce) a protezione da angosce di disintegrazione o frammentazione.
Sia Freud che Bion concordano nel considerare i sintomi psicotici come un tentativo di riparazione ad un Io danneggiato, la ricostruzione di un mondo distrutto al prezzo del rapporto con la realtà.
“Talvolta è come se il paziente pensasse che la “frattura” tra l’io e la realtà sia conseguenza di una aggressione alla sua psiche che ha lasciato uno squarcio attraverso il quale fuoriescono i contenuti psichici lasciando solo un involucro vuoto. Ricorre all’organizzazione psicotica perché richiude la ferita con una medicazione che gli permette di sentirsi più integro e meno in pericolo di disintegrarsi” (p. 93).
La sistematizzazione di un delirio, per quanto angosciante, ha un effetto stabilizzante, relativamente tranquillizzante. L’equilibrio che ne deriva avviene al costo di menomazioni delle funzioni psichiche e non è mai del tutto stabile e offre un certo sollievo allo stato d’animo vagamente delirante del paziente. Quando questo equilibrio si rompe allora si produce lo scompenso con la richiesta di aiuto ma non nella direzione di contrasto alla parte psicotica, quanto di ripristino dell’equilibrio precedente.
La coesistenza di personalità psicotiche e non psicotiche: Freud e Bion affermano come nello psicotico convivano una parte psicotica e una parte sana. “La relazione tra le due parti della personalità è complessa, e i loro obiettivi sono di solito antagonistici: la parte psicotica tenta di mantenere un controllo onnipotente sull’oggetto per riparare l’Io mentre la parte nevrotica tenta di fronteggiare la realtà psichica e di abbandonare l’oggetto.” (p. 94).
Il non psicotico è in grado di elaborare il lutto e quindi di riprendersi le parti proiettate con una identificazione proiettiva rovesciata e quindi flessibile. Secondo Bion, questa flessibilità è necessaria per la capacità di pensare, l’elaborazione del lutto, la colpa e la vergogna.
“Una delle minacce più gravi all’egemonia delle organizzazione psicotiche proviene dalla sanità mentale del paziente, che spesso viene proiettata sull’analista giungendo a essere rappresentata dall’analista e dal suo lavoro” (p.95). Nonostante l’organizzazione psicotica possa funzionare come un rifugio della mente contro le angosce catastrofiche di disintegrazione e frammentazione, anche nello psicotico possono emergere sentimenti depressivi vissuti anch’essi come intollerabili a cui sottrarsi ritirandosi nel rifugio.
Steiner cita il caso di un paziente che aveva deciso di convertirsi all’Ebraismo, di intensificare i suoi contatti con ebrei e di studiare lo yiddish; aveva inoltre ordinato uno scialle da preghiera fatto in Israele. Divenne sospettoso verso gli ebrei del quartiere dell’analista percepiti come pericolosi e peggio dei nazisti. Ricevuto finalmente lo scialle dopo una lunga attesa, lo portò in seduta rassicurato dal legame speciale con Yahweh. Il paziente diceva con molto rammarico che prima della crisi non avrebbe avuto bisogno dello scialle; a quei tempi sapeva che “io sono io”, con la percezione di una dissoluzione interna compensata dal potere dello scialle che lo rendeva ora invincibile. Nei momenti depressivi ripensando alla percezione del proprio deterioramento diventava aggressivo e gridava che lui e Yahweh avrebbero distrutto il mondo e sterminato gli uomini. Aveva telefonato all’analista dicendo che temeva di confondere il suo studio con il bagno ed, esasperato, avrebbe defecato nella sua stanza, aggiungendo “fare pulizia è un problema suo. Fanno questo a me, e perché non dovrei farlo a lei?”. Questo esempio mostra chiaramente come l’organizzazione psicotica sia stato un tentativo di riparare alla percezione di un danno fatto alla sua psiche attraverso un legame onnipotente e grandioso con Yahweh con cui avrebbe punito l’intero pianeta.
La minaccia e il terrore di disintegrazione e frammentazione psicotica possono essere di tale intensità per cui il paziente non è minimamente disposto a rinunciare al sistema delirante rigettando qualsiasi possibilità di sanità mentale. Per questo la parte sana può essere travolta, sedotta o comunque soggiogata da quella psicotica. Pertanto, l’organizzazione psicotica diventa un rifugio della mente. Inevitabilmente il danno, il deficit dato dall’organizzazione psicotica è prevalentemente privo di rimedio e questo ha conseguenze determinanti per il lavoro psicoterapeutico.
- Vendetta, rancore, rimorso e riparazione.
Un altro tipo significativo di rifugio della mente è quello nel quale il paziente è prigioniero del rancore, del risentimento. Questi pazienti si sentono feriti, trattati ingiustamente, ma non sono in grado di reagire in modo pienamente esplicito per paura di una vendetta eccessiva e di una conseguente punizione estrema che potrebbe generare una fortissima angoscia ed estrema colpa. Quindi l’espressione solo parziale dell’aggressività protegge dalla colpa e si crea una guerra cronica e sotterranea. L’oggetto non viene distrutto ma torturato, mutilato, tenuto in uno stato di morte apparente. Infatti, l’oggetto deve restare in vita perché la tortura (prevalentemente fantasticata) possa continuare.
Il rancore diventa uno scopo di vita che viene masochisticamente alimentato. La “ferita” viene investita narcisisticamente il che preclude la possibilità di una guarigione.
L’oggetto viene svalutato e considerato totalmente cattivo al punto che il perdono sarà impossibile. Un elemento fondamentale di questa forma particolare di rifugio della mente consiste nel fatto che vi è una mancanza di assunzione di responsabilità: la colpa è esclusivamente dell’oggetto che è totalmente cattivo, e il soggetto è solo vittima, senza possibilità di superamento di questo modello relazionale.
Inoltre, l’investimento sulla vendetta è tale che viene preclusa l’elaborazione del lutto. La sopportazione masochistica delle proprie sofferenze è sostenuta della fantasia che un giorno si compirà la sua vendetta e giustizia sarà fatta. Il rancore insieme alla attesa del risarcimento diventa una difesa dalla realtà e in particolare dall’esperienza della perdita. Bloccando l’elaborazione del lutto si inibisce lo sviluppo.
Una delle motivazioni che impedisce il superamento dello stallo nel rifugio della mente per il rancore consiste nel rifiuto a rinunciare al controllo onnipotente dell’oggetto, un blocco nella prima fase della posizione depressiva con il diniego della perdita. Un passaggio fondamentale per il superamento di questa condizione riguarda la capacità di perdonare (cfr. Rey).
Tuttavia, il perdono richiede un minimo di integrazione della personalità trovando nell’oggetto anche qualità positive, e nel soggetto qualità negative.
La vendetta ha una sua insaziabilità intrinseca che spesso non si ferma con la giustizia compiuta per una prevalenza della pulsione di morte.
Il risultato è un intrappolamento paradossale e micidiale: è offeso ma incapace di avere una giustizia che lo plachi.
Il rifugio della mente in questo caso offre una protezione da oggetti fortemente persecutori, alimentando fantasie di vendetta ed eliminazione di nemici.
Steiner afferma che l’intensità dell’odio e del desiderio di vendetta può non essere riconosciuta dal paziente. Nella mia esperienza ho incontrato alcuni pazienti il cui odio verso uno dei genitori era di tale intensità, con una tale carica e potenza da assumere una valenza tonificante ed eccitatoria. Per quanto fosse il reale dolore per il maltrattamento subìto, l’odio per l’oggetto e la percezione di una sofferenza quasi glorificata creavano una condizione tragica se non “epica” che non permetteva minimamente l’accesso alla posizione depressiva. L’elemento che maggiormente colpisce è la potenza, la tenacia nell’investimento masochistico nel tormento dell’odio, di sé come vittima impotente che può solo traboccare di odio per l’oggetto. In questi casi il vero motore che alimentava questi meccanismi era la gravità dei sentimenti di inadeguatezza proiettati sul genitore che diventava infinitamente sprezzante e pertanto meritava di essere torturato a oltranza. La difficoltà, per me, consisteva nella limitata possibilità di ritirare proiezioni così potenti portando il paziente a sentimenti depressivi intollerabili di fronte ad un percorso evolutivo molto, troppo in salita. Un paziente mi aveva detto che non pensava di poter uscire dal suo cronico stallo esistenziale, di cui pagava un prezzo altissimo, perché altrimenti il padre avrebbe potuto pensare di essere stato il buon padre di un figlio almeno parzialmente realizzato, e quindi il suo blocco era un modo per punire il padre in eterno. Tutto questo a difesa di una vulnerabilità narcisistica abissale.
Dott. Alvise Orlandini
Bibliografia
John Steiner, I rifugi della mente. Organizzazioni patologiche della personalità nei pazienti psicotici, nevrotici e borderline. Bollati Boringhieri, Torino, 1996.
Immagine: Kamero Loh